domenica 16 ottobre 2011

gast

Che dire della sensazione che lascia l'aver appena concluso un buon libro? Che poi, dire un "buon libro" è un'espressione del tutto impropria, come se si stesse parlando di una torta, di un caffé. Beh, lascia anzitutto turbamento. Un movimento interiore, più che intellettuale. Getta luci e ombre su degli aspetti di noi stessi che facciamo fatica ad esplorare da soli. Che ramanzina detestabile... Lasciatemi giungere a qualche punto, che sento una qualche furia da sfogare: 1) prendete la scena di eternal sunshine of a spotless mind, quando sono sdraiati sul lastrone di ghiaccio e uno dei due dice la frase più potente e romantica che si possa dire "non vorrei essere in nessun altro posto". è una situazione che mi terrorizza. Credo di aver amato, credo di essere stato amato, ma non abbastanza - forse - da poter dire con tutto/i me/se stesso/i (al 1000%) una frase del genere. Non che si desiderasse di stare da un'altra parte, tutt'altro! Non si tratta di annoiarsi; eppure domandarsi anche solo per un istante se per caso non ci si stia annoiando, ci fa accorgere di un quantum di mancanza di felicità adrenalinica. La sola passione che può condurre ad una convinzione così invincibile. Così, l'idea di avvicinarmi ad una nuova ragazza è accompagnata dal pensiero di non riuscire infine a provare quello che si deve, che mi rende perplesso o mi allontana. Del resto: si deve provare? è quella sensazione solo una costruzione artistico-letteraria? o comunque un'illusione destinata con il tempo a sparire, mentre il rapporto deve essere cementificato dal buon senso? 2)se avessi un reddito assicurato senza lavorare, mi chiedo, sarei anche io preda di un'indolenza devastante come Dino del romanzo La Noia di Moravia? E' questo il libro che ho appena finito di leggere. E' destino che i libri composti da una sola parola mi conquistino: La noia, La nausa, La Fame, Il Laureato (che poi è lo stesso che se ci avessero scritto "la noia"), ecc. Un mio vecchio professore se ne è uscito proprio recentemente con una citazione moraviana che recita: "Ci sono bambini tonti, ottusi, insensibili. Ci sono quelli che sono molto sensibili, ipersensibili. Quelli ipersensibili possono diventare dei disadattati; ma possono anche diventare degli artisti". Si prenda un epilettico eccellente come Dostoevskij! Questo stare in bilico delle vite di tali soggetti ne rende la vita intensa, anche se in un modo del tutto differente da una sua definizione superficiale, che vorrebbe intensa una vita piene di esperienze più o meno mondane. La vita gli scivola addosso, invece, tra l'abitudinario e il nuovo, lasciando un senso di straneamento che conduce continuamente alla domanda: "cos'è tutto ciò? c'è davvero? è assurdo, perché gli altri non se ne accorgono? Perché io sento diversamente?". Quest'ultime due domande generano il cinismo, l'amoralità: ci si percepisce differenti. Infatti si è indifferenti a tutta una serie di circostanze, status, ecc, a cui la norma sociale attribuisce grande importanza e interesse, e tutta l'attenzione è raccolta da aspetti che rimangono pressocché incomunicabili, non codificati, condannando giocoforza ad un isolamento.

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